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Lorenzo Marone
La vita a volte capita
320 pp.
Edito Feltrinelli
Anno edizione 2024
€19,00
Cesare Annunziata è un anziano fattosi burbero a causa di una lunga serie di inciampi esistenziali. Cosa si impregna nel terreno, se tanto le nostre orme sono solo tracce delebili sul terreno della sorte umana? Lasciare un segno, dice Cesare, un segno tangibile. E in questo Cesare ci istruisce, con questa volontà ferrea e affannata di dover assolvere tutto insieme alla missione della sua sorte, compresa troppo tardi, per non lasciar nulla di intentato. E poi ogni vissuto si perde, è ovvio. “Ogni cento anno la specie si rinnova”. E quindi resta delle nostre parentesi di brevità incompiute? Abbiamo solo poche diapositive, poche cartucce che ci separano dal cielo, o forse dal nulla, e poi siamo granelli nel pulviscolo. Nessuno è mai veramente solo perché con un singolo gesto, anche solo con una carezza distratta, possiamo cambiare drasticamente il corso di una vita umana, e perfino non sapere mai di questa nostra vocazione prodigiosa. Totó diceva “la felicità è un insieme di attimi di dimenticanza”. Cesare è di Napoli e di certo conosce le memorabili imprese di Totó, mecenate di questa Napoli che in fondo lo ha assuefatto, ma di cui poi si scopre allietato quando un salumiere incontrato per caso si offre di accompagnarlo a casa, vedendolo evidentemente malconcio. O quando una ragazza conosciuta d’un tratto al parco improvvisamente lo abbraccia come se fosse il suo salvatore, e in effetti possiamo dire che un po’ lo è stato. “L’anima si cura con certi incantesimi”, diceva Platone, e Cesare direbbe che questi incantesimi non sono le medicine omeopatiche, nè le partite a scacchi, nè aspettare la fine comodamente seduti sulla poltrona perché si è deciso di abdicare alla vita. Ma la vita va presa per le corna, e Cesare lo sa, fin quando non stramazzi al suolo agonizzante perché sei stato, dopo mille resistenze, irrimediabilmente disarcionato. Attimi di dimenticanza? Forse attimi di altruismo. Attimi in cui si esce dal proprio guscio di paturnie egoiche e ci si concede all’altro, in tutte le varianti infinite in cui questa combinazione può manifestarsi. E se questa felicità, “filibustiera che fa presto a tramontare in nostalgia”, quella che ti inchioda sul letto inumidito una notte afosa di agosto in un rione abbacchiato da una cappa canicolare che sembra corrodere più delle braci di un girone infernale, a quale conclusione - infima o salvifica - giungerebbero le divagazioni filosofiche di Cesare Annunziata? Che il Vomero è un quartiere di arricchiti arrognati e avidi, che la mente è una “sfoglia di cipolla”, o che forse il vero antidoto è la morte è la vita stessa, e che non siamo mai veramente accesi di vita, nella nostra perenne ma non del tutto insensata bramosia di autoconvincerci che non siamo brevi refoli di vento, come quando tendiamo la mano all’altro alzando gli occhi al cielo e ai miracoli che possono accadere oltre la nostra barricata di svuotamento emozionale. E così Annunziata diventa un po’ un vate che vuole fare ammenda, e un po’ anche darsela la possibilità di smantellare il suo apparato di menzogne, per sperimentare la catarsi rassicurante della compassione, che è un bacino d’acqua calda in cui possono nuotare tutti gli esseri viventi, e che può rinverdire anche il più gelido deserto. Pablo Neruda, che tutto sommato per Cesare Annunziato simpatizzerebbe, perché in fondo anche lui era un po’ un romanticone, la direbbe così: “Se niente ci salva dalla morte, che almeno l’amore ci salvi dalla vita”.